Daniele De Angelis / Cine Clandestino
Süt (Milk)
Vuoti a perdere
L'incipit di Milk -pellicola turca firmata da Semith Kaplanoglu inserita nel Concorso Ufficiale della sessantacinquesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia- in apparenza slegato al resto della narrazione, è semplicemente folgorante. Un vecchio seduto ad un tavolo da indicazioni ad alcuni giovani in piedi poco lontano. Poi vediamo una ragazza appesa ad un albero a testa in giù, con sotto un braciere ed un recipiente che bolle, emettendo fumo. L'uomo anziano getta un foglietto nella pentola bollente, il volto della ragazza freme, come fosse in preda a spasmi. Dalla sua bocca fuoriesce un serpente, che il vecchio estrae con prontezza. Prologo che ci da il benvenuto nella Turchia più remota, quella dove la modernità non è ancora completamente arrivata e le antiche tradizioni persistono intangibili.
Milk costituisce il secondo segmento, dopo l'immediatamente precedente Yumurta, di una prevista trilogia sul conflitto tra vecchio e nuovo nella terra della mezzaluna. Protagonista è sempre Yusuf, qui colto negli anni giovanili, ragazzo che tenta in qualche modo di districarsi nel clima apatico e indifferente della comunità rurale in cui vive. Scrive poesie, nonostante la madre, con cui il giovane vive, lo inciti a dedicarsi con maggior assiduità al lavoro, una produzione casalinga di latte e formaggi. Yusuf tenta un approccio con un paio di ragazze, ma la cosa, per una serie di fortuite coincidenze, non ha sbocchi felici. Una sua composizione viene pubblicata. Ma il Destino di Yusuf appare, nonostante i tentativi, probabilmente già scritto.
Visti i precedenti del regista Kaplanoglu, uno che vanta nel curriculum una discretamente lunga carriera in ambito pubblicitario, c'era da phpettarsi -o temere…- che Milk fosse l'ultimo esemplare di quella vulgata formalista "da esportazione" che pare abbia da qualche tempo colto la cinematografia turca e di cui si è visto, sempre qui a Venezia, il trascurabile Two Lines di Selim Evci. Invece il film in questione si rivela in fin dei conti un'opera stilisticamente sobria, poco o per nulla laccata nella fotografia, composta da lunghi piani fissi e con rarissimi movimenti della macchina da presa. Se l'obiettivo dell'autore era quello di descrivere una situazione sociale ai limiti della sopportabilità umana, almeno di fronte ai nostri occhi "occidentali", bisogna dire che esso viene centrato quasi totalmente. Lo sguardo di Yusuf, sorta di "alieno" in patria per sete di cultura e desiderio di esprimere la propria sensibilità, diviene il nostro. Il ragazzo viene descritto dal regista attraverso i segni distintivi della tipica nobiltà appartenente ai tanti Don Chisciotte destinati alla sconfitta in partenza senza che l'epilogo possa dipendere da loro: Yusuf osserva silenzioso una realtà circostante con cui non riesce a compenetrarsi, partendo proprio dal rapporto con la persona che teoricamente dovrebbe essergli più vicina, ovvero la madre. Il tutto narrato con una forma stilistica davvero efficace almeno fino a quando, soprattutto nella seconda parte, Kaplanoglu non decide di mettere le sensazioni del suo protagonista un po’ in secondo piano, concedendo troppo spazio alla “autorialità” del film e trasformando Milk in quella esplorazione dei vuoti dell’anima così cara al nostro scomparso Michelangelo Antonioni. Senza avere (ancora?) le capacità artistiche per tentare una così azzardata operazione.
Un peccato veniale che non inficia in modo determinante i meriti di una pellicola che riesce comunque a mostrare uno spaccato nascosto della Turchia meno “turistica”, avendo successo nel non trascurabile risultato di far assurgere l’atmosfera dal grado strettamente locale a quello universale; e lasciando in noi la curiosità di sapere come si concluderà, nel prossimo film intitolato Bal (Honey), la piccola epopea esistenziale di Yusuf. Se non uno di noi, almeno uno come noi, verrebbe da dire…
Dal vicino Oriente, insomma, nulla di particolarmente nuovo. Ma di sicuro abbastanza degno di interesse.